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LUIGI DE CINQUE – Capitalismo Estetico: Arte e Consenso Finanziario.

L’analisi muove dalla considerazione che l’arte è un conferimento di valore, che avviene nel corso del tempo e con diverse modalità, su un oggetto creato con intenzionalità artistica. Oggi non avviene sulla base del giudizio critico valutativo, bensì sulla base di una costruzione di consenso teso a creare un capitale di visibilità sull’artista o sull’opera, dove l’elemento economico è determinante in questa fase di capitalismo estetico.

Nell’apparente massimo grado di libertà di espressione e giudizio, e nell’apparente massimo grado di libertà nell’acquisizione di valore, l’arte viene oggi fagocitata dalla costruzione del consenso su base finanziaria. L’arte contemporanea non è in discontinuità concettuale con le esperienze del passato, come essa stessa pretenderebbe, se non nel fondamentale abbandono della “differenza estetica” come elemento che la distingueva dagli oggetti e dai mezzi. Nell’epoca del capitalismo estetico l’opera ha assunto un peculiare ed artificioso valore finanziario. Il tema centrale della valutazione è dunque il come avviene l’opera di valorizzazione, e compito dello studioso dovrebbe essere quello di evidenziare e demistificare le dinamiche secondo le quali avviene questo riconoscimento di valore.

Questa investitura storicamente si attivava all’apparire dell’opera attraverso una valorizzazione critica ed economica in ragione del lavoro materiale necessario alla sua realizzazione o al valore simbolico ed espressivo raggiunto. Ma solo quando una generazione diversa da quella dell’artista che l’aveva creata si faceva carico di conservare l’opera, investendo su di essa sforzi intellettuali ed economici per trasmetterla, si aveva la certezza che quell’opera fosse di valore. Il sopravvivere dell’opera alla lotta per la critica culturale era la certificazione del suo valore artistico o testimoniale.

Il percorso è ora diventato autoreferenziale e determinato dalle logiche mediatiche del capitalismo finanziario. Questa autoreferenzialità sostenuta su base finanziaria scoraggia l’avvio della educazione all’estetica, allontanando l’arte non solo dall’idea di far parte di un processo veritativo in quanto espressione sensibile di una intuizione immaginativa, ma anche privandola di ogni ideale etico. Rifiuto dell’educazione al gusto in favore della costruzione del consenso. L’arte finanziarizzata è un’esperienza di possibilità che hanno smarrito il vincolo con il contesto sociale o industriale, e si restringe ad un’esperienza autoreferenziale che si offre in forme di partecipazione, di svago o di consumo elitario. La radice secondo la quale il piacere estetico è una promessa di felicità, nell’arte finanziarizzata comunque appare, ma per anestetizzare l’atto liberatorio, perché subordinata alla costruzione del consenso. È un attributo di arte che emerge pure in artisti come Koons, Murakami, Cattelan, dove l’opera funziona se genera un lampo di felicità: ovvero se l’osservazione dell’opera può sottrarre l’individuo alla sua quotidianità per un attimo di catarsi. Ciò che conta è far stare bene nell’hic et nunc, e questo fine non può sfuggire alla logica costruttiva del consenso.

Lo choc è lo strumento operativo principe sia della comunicazione che degli storytelling finalizzati alla valorizzazione dell’arte. Il ricorso ad un’arte che crea choc e che sia spettacolarizzata, risponde appieno alle finalità del capitalismo estetico. A tutto ciò corrisponde l’organizzazione per eventi delle grandi esperienze internazionali presenti nel mondo, Biennale, Kassel, Basilea ecc., come luoghi deputati alla costruzione del consenso intorno alle proposte d’arte. Il turista colto non le studia, non si fa trasformare, ma le consuma. La pratica dello scandalo è talmente diffusa che è diventata una religione nell’arte.

Nell’età della finanziarizzazione dissacrare è diventato uno strumento retorico che assicura l’accesso alla costruzione del capitale di visibilità. Da quando il riferimento non è più alla bellezza o al portato sociale dell’opera, la condanna del presunto bigottismo domina l’atteggiamento artistico. Così nascono i professionisti della dissacrazione.

Ciò ha portato ad un arretramento del valore accordato alla materia ed al lavoro manuale in favore di quello descritto come l’invenzione nell’arte, ovvero all’affermarsi dell’arte come strumento concettuale che oggi si traduce espressivamente sempre più nelle dimensioni dell’immateriale e del virtuale. In breve, la svalorizzazione della materia e della fenomenologia del processo intuitivo di creazione, in fuga dalla sua pratica.  La ricerca artistica ha oggi spogliato l’esperienza del tradizionale rapporto tra intuizione, idea e segno, ovvero della pratica di un linguaggio, come il disegno, che era per Leon Battista Alberti e Giorgio Vasari strumento di “rifigurazione” per tradurre l’idea in espressione sensibile.

E così anche l’arte è diventata un gioco di segni senza referenze, un astratto strumento finanziario all’interno di un circolo il cui fine è la proliferazione di segnali finanziari.

L’arte è propagandata da creatori di consenso, operanti in deroga a qualsiasi metodo critico. Dal “critico come artista” al “finanziere come artista”. Il finanziere, infatti, è diventato il creatore dello pseudo-creatore, il vero artista in quanto dispone degli strumenti oggi necessari anche solo per creare consenso, ovvero valore economico, esposizione e collezionismo delle opere. E l’artista obsoleto è una pedina inserita nel gioco dello scambio finanziario, al pari dei fondi di investimento o degli altri beni simbolici.

L’arte cosiddetta contemporanea prescinde (e a volte nega) dall’educazione all’estetica così come pensata dalla fine del Settecento, cioè possibile capacità di valutazione e discriminazione relativa ai fatti artistici ed ai loro componenti.

Per conseguire un’adeguata comunicazione pubblica, che consenta di acquisire un potere di evidenza, è fondamentale mettersi in scena, vetrinizzarsi. I creatori di visibilità agiscono al di fuori degli storici procedimenti della critica d’arte e delle sue metodologie. Il critico, o il curatore, è la pedina nobile all’interno di uno scacchiere governato da ben altri poteri, e l’artista il front-man.

L’arte si muoveva dall’esigenza psicologica come spinta individuale a sentirsi essenziali al mondo; l’arte come messaggio di un individuo contro la storia dei suoi tempi al fine di testimoniarne o di trasformarne gli esiti. Il critico era colui che, libero dai pregiudizi, era in grado di verificare la capacità di un’opera di raggiungere il proprio scopo, ovvero di suscitare commozione d’animo, la sua coerenza interna, l’impatto sulla realtà e la capacità di configurare nell’osservatore un grado di liberazione estetica e di soddisfacimento. Oggi il mercato non ha bisogno di critici. Per un critico oggi è più importante mettersi in scena che perdere tempo producendo letteratura.

La demistificazione di questi atteggiamenti potrebbe risiedere in un atto non artistico come quello della street-art. Ma questi artisti, una volta entrati nel sistema, continuano a mantenere un apparente rifiuto, che altro non è che il loro modo di essere nel sistema.

Se la body-art era una estetica della crudeltà, la tattoo-art per ora è una sintassi del delirio che agisce in una dimensione post-umana, che segna l’appropriazione di sé stessi in ribellione con il profilo sociale o l’appartenenza ad una comunità. La ferita ed il marchio diventano forme di resistenza cariche di esibizionismo per rendere visibile un affratellamento. Ma questa cosmetica è diventata epidemia sociale, sicché si trasforma in omologazione, tipico movimento del capitalismo consumistico, che trasforma la contro-prassi in prassi e la omologa.

In passato era l’utilità l’elemento discriminante, successivamente il valore testimoniale, infine il criterio estetico e il culto per la bellezza. Se tutto è potenzialmente arte, specialmente arte di denuncia, solo un processo d’investimento di valore che si traduca in musealizzazione, o in nuove forme di accoglimento, assicura valore all’oggetto e un riconoscimento come opera. Nel 1961 Piero Manzoni, con la sua Merda d’artista voleva indagare fino a dove si poteva spingere il potere dell’autore nel presentare sé stesso come opera, per poi venire fagocitato anche lui dal mercato. Quindi l’avvento dell’arte concettuale e delle produzioni esteticamente di massa ha portato all’estensione del termine arte a tutta una gamma di proposte, comportando dei cortocircuiti teorici: se un orinatoio è un’opera d’arte conservabile, potenzialmente ogni orinatoio è un’opera d’arte. Quanti orinatoi dovranno conservare i futuri musei?

La Biennale 2015 ha cercato di recidere il cordone con il mondo della finanza capitalistica consegnando una rassegna dedicata ad esplorazioni artistiche dell’opera di Marx. Ma se l’arte della postmodernità è stata fagocitata dalla finanza, ingarbugliata nella rete del sistema-moda che costruisce intorno ad essa il consenso attraverso la creazione di visibilità, sarà un elitario ritorno a Marx la via d’uscita? Di fronte alla estetizzazione della politica, a faticare appare proprio una politicizzazione dell’estetico.

Tutta l’Arte è Contemporanea”. Questa frase volontaristica dimostra che anche un cattivo artista può aiutarci a capire il mondo in cui viviamo.

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