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ALBERTO VACCA – Lettera a Velia Titta moglie di Giacomo Matteotti

Cara Velia,

oggi è il 10 giugno e il 10 giugno è stata una data tragica e funesta per te, per tuo marito Giacomo, per i tuoi figli Giancarlo, Matteo, Isabella e per la nostra Italia.

Il 10 giugno 1924 è il giorno del feroce assassinio di Giacomo ad opera di una efferata banda fascista. È una data fatale perché ha cambiato per sempre la tua vita e quella degli Italiani. Ha cambiato la tua vita perché – dopo avere assassinato tuo marito – il regime fascista, capeggiato da Benito Mussolini, ha dato inizio a una persecuzione continua e accanita nei tuoi confronti, che si è protratta fino alla tua morte, avvenuta il 5 giugno 1938. Con la tua, è cambiata anche la vita dei tuoi figli e degli Italiani perché il regime fascista – connotato inizialmente da una tendenza autoritaria – si è trasformato in seguito in un vero e proprio regime totalitario, che ha eliminato le libertà politiche, civili e sociali proprie del precedente Stato liberale.

La storia di Giacomo e del suo assassinio è assai nota perché è stata ampiamente indagata e ricostruita da numerosi storici, studiosi e giornalisti. Ciò che è meno noto, invece – non solo agli Italiani, ma persino in parte a te stessa – è la vita che hai condotto tu e i tuoi figli in Italia negli anni del totalitarismo fascista.

Io, quella tua storia la conosco bene perché l’ho appresa da una serie di fascicoli intitolati «Matteotti Famiglia», redatti dal Ministero dell’Interno durante gli anni del regime e conservati attualmente presso l’Archivio centrale dello stato di Roma, e l’ho raccontata in un libro intitolato «L’occhio del Duce in casa Matteotti – La spia dell’Ovra Domenico De Ritis».

Tu non l’hai mai saputo, ma Domenico De Ritis – che frequentò assiduamente la tua casa dal 1930 al 1938, anno della tua morte, e che tu ritenevi essere un  amico fedele e sincero – era in realtà una spia dell’Ovra, che la Polizia politica, su incarico di Mussolini, aveva infiltrato all’interno della tua famiglia per neutralizzare ogni eventuale attività politica da parte tua prima e da parte dei tuoi figli dopo la tua morte.

De Ritis, dal 1930 al 1943, redasse un’ampia serie di lettere indirizzate alla Polizia politica per tenerla costantemente informata su tutto ciò che riguardava te e i tuoi tre figli. La polizia politica, poi, riferiva, ovviamente, il contenuto di tali lettere al duce.

Per tua esperienza personale, hai sempre saputo  che il capo del regime fascista esercitava su di te un rigido e insopportabile controllo poliziesco, facendo pedinare i tuoi spostamenti e sorvegliare la tua casa giorno e notte dalle forze dell’ordine. Non hai mai saputo, invece, che il duce, tramite l’attività spionistica di De Ritis, riuscì a conoscere ogni tuo intimo pensiero e a orientare le tue scelte personali e familiari in modo tale che non fossero nocive, dal punto di vista politico, per il regime fascista.

Devi sapere che De Ritis, dopo essere riuscito a conquistare la tua piena e incondizionata fiducia con il suo modo di fare subdolo e viscido, riuscì a compiere nei tuoi confronti una vera e propria opera di plagio.

Quando la situazione finanziaria della tua azienda familiare di Fratta Polesine diventò catastrofica, a causa delle continue devastazioni causate dai fascisti locali, fu De Ritis a far naufragare la tua richiesta di aiuto ai fuoriusciti di Parigi, amici di tuo marito,  e a spingerti a rivolgerti al capo della polizia per sollecitarlo a dare disposizioni affinché ti venisse concesso un mutuo che ti spettava per legge, ma che nessuna banca voleva concederti per paura di ritorsioni da parte delle autorità fasciste. Il capo della polizia, su ordine del duce, non solo ti fece ottenere il mutuo bancario, ma ti anticipò persino una somma consistente a titolo di prestito, che in seguito non riuscisti a restituire, sebbene ne avessi l’intenzione, per il sopraggiungere della tua morte. Fu De Ritis che orchestrò tale operazione, su iniziativa cinica del duce, che la sfruttò per presentarsi all’opinione pubblica nazionale e internazionale come protettore e non persecutore della tua famiglia.

E fu sempre De Ritis che, su ordine esplicito di Mussolini, nel luglio 1935, rese pubblica questa vicenda, con la pubblicazione di una sua lettera sul settimanale fascista parigino “il Merlo”, per esaltare la sua grande magnanimità verso la tua famiglia.

De Ritis scrive di essere stato spinto alla pubblicazione della sua lettera dall’amore per la verità, ma mente. L’operazione degli aiuti che ti furono concessi dal duce, fu da questi ideata e posta in essere non per un atto disinteressato di beneficenza, ma per uno scopo eminentemente politico teso da un lato a screditare l’operato degli antifascisti all’estero, presentandoli come insensibili e indifferenti nei confronti della famiglia di un loro compagno di lotta defunto, e dall’altro a presentare il regime fascista come benefattore della tua famiglia.

Cara Velia, io sono certo che se tu avessi saputo che De Ritis non era un amico sincero, ma una perfida spia dell’Ovra, mai e poi mai avresti ascoltato e seguito i suoi consigli, che miravano a realizzare le finalità del regime fascista e non le tue. Mai e poi mai avresti accettato un prestito dall’Ovra. Fu la sua perfidia che ti trasse in inganno. Perfidia talmente ben dissimulata da indurti a non nutrire mai neppure il minimo dubbio sulla sincerità di colui che si professava il tuo amico più fedele.

Oggi è il 10 giugno 2024, ricorrenza del centesimo anniversario del truce assassinio di Giacomo. E noi siamo qui riuniti per ricordarne la memoria, così come facesti tu ogni anno, dopo il suo assassinio, quando eri ancora in vita, e come poi fecero dopo di te i tuoi figli, dopo la tua morte.

Ogni 10 giugno tu commemoravi Giacomo con la celebrazione di una messa nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma e la deposizione di fiori alla Quartarella, dove fu trovato il suo cadavere,  e al cimitero di Riano, dove furono ricomposti i resti del suo corpo prima del funerale. La tua commemorazione avveniva sempre sotto una stretta sorveglianza poliziesca perché il duce voleva impedire  che i cittadini potessero  avvicinarti ed esprimerti la loro solidarietà, manifestando così che il ricordo di Giacomo, che egli voleva cancellare dalla mente degli Italiani, era ancora vivo.   La figura di Giacomo, tu l’hai onorata e ricordata fino alla fine della tua vita. L’ultima commemorazione in suo onore la facesti il 10 giugno 1937. Di essa De Ritis, come negli anni precedenti, fece ovviamente una relazione alla polizia politica per informarla dello svolgimento dei fatti e dei tuoi sentimenti nei confronti del regime.

 Nella sua lettera dell’11 giugno scrive:

Ieri sono stato quattro ore con la Matteotti che ha avuto una giornata molto affaticata. Ha gradito affettuosamente la mia lunga visita sentendo il bisogno di ricordare la data (10 giugno), persone e fatti. È sempre vivo in lei il ricordo della persona cara, l’episodio tragico, le conseguenze di esso, la speciale situazione sua e dei figli, la speranza … di una rivendicazione. Su questa io ho cercato di calmarla spiegandole la grande evoluzione del nuovo sistema e le profonde trasformazioni avvenute nel campo sociale e politico.

[…] Ieri di buon mattino la Matteotti unita alla cameriera è andata a Riano per compiere il consueto rito; al ritorno in compagnia dei figli è stata in chiesa per le funzioni annuali.

Emerge in modo chiaro dalle parole di De Riris che, rievocando con lui il passato e commentando il presente, ti sei augurata fino alla fine della tua vita la caduta del regime fascista e un cambiamento futuro nell’interesse dei tuoi figli e dei figli di tutti gli Italiani. La speranza della rivendicazione, della riscossa, da te auspicata, però, nel 1937 era ancor lungi dal potersi realizzare.

Il 10 giugno 1938 non potesti commemorare la memoria di Giacomo, perché moristi cinque giorni prima in seguito alle complicazioni sopravvenute a un’operazione chirurgica. Di ciò si rallegrò ovviamente il duce che, in una conversazione avuta  con Ciano alcuni giorno dopo, commentò l’episodio della tua morte con queste parole: «i miei nemici sono finiti sempre in galera e qualche volta sotto i ferri chirurgici». Parole di vivo cordoglio per la tua morte, invece, espresse tuo fratello Titta Ruffo che, nella lettera del 6 giugno 1938 indirizzata alla moglie Lea Fontana, manifestò il suo rammarico per avere ostacolata la tua giovanile vocazione religiosa e compianse così il tuo tragico destino:

Tanti pensieri, considerazioni, e ricordi del passato, si affollano alla mia mente, e rivedo mia sorella giovanetta nella villa ai Parioli, quando la consideravo la carezza della casa, con un viso angelico e la voce così bella che penetrava nel cuore. Ella voleva farsi monaca, e tu ricorderai quanto io mi adoperai per dissuaderla, ora mi sento (senza volerlo) complice di tutto il suo tragico destino, forse quello era il suo giusto cammino. Ora piango la sua morte con un senso di dolore inesprimibile fatto di tanti contrasti e sentimenti che mi danno oltre il dolore morale un dolore fisico, e vorrei imprecare contro il destino che per molti esseri è veramente tragico. Questo mese di giugno mi fa sempre paura, e tutti gli anni come se un incubo mi seguisse, attendo sempre qualche nuovo dolore. Il solo mio rammarico di tanta amarezza è che avrei voluto parlarle prima che se ne andasse per sempre.

Tuo fratello, quando scrisse la lettera alla moglie in occasione della tua morte, aveva un brutto presentimento. Era perseguitato dall’incubo che il 10 giugno fosse sempre foriero di qualche nuovo dolore. E bisogna dire che non aveva tutti i torti perché, di lì a poco, arrivò il 10 giugno 1940, data in cui il duce annunciò l’entrata in guerra dell’Italia, che apportò agli Italiani solo distruzione, rovina e morte.

Cara Velia, il sogno di un’Italia diversa da quella fascista, da te sempre coltivato negli anni del regime, ebbe finalmente compimento in una data coincidente con quella dell’assassinio di Giacomo, il 10 giugno 1946, allorché la Corte di cassazione, riunita in seduta solenne presso la Sala della Lupa in Palazzo Montecitorio, proclamò i risultati provvisori del referendum del 2 giugno, che attribuirono la vittoria alla Repubblica, e  il Presidente del Consiglio Alcide De Gasperi assunse le funzioni di Capo provvisorio dello Stato.

Con la nascita della Repubblica italiana, fondata sulla Costituzione antifascista – elaborata tra il 1946 e il 1947 ed entrata in vigore il 1° gennaio 1948 – può dirsi che siano rinati anche i valori per cui Giacomo si era battuto ed era morto. «Uccidete me, ma l’idea che è in me non la ucciderete mai» aveva gridato ai suoi assassini mentre lo colpivano a morte. Ebbene, la sua idea trova ancor oggi concretezza negli ideali di libertà, giustizia, eguaglianza e solidarietà sanciti dalla nostra Costituzione. Ed è per questo, cara Velia, che oggi, 10 giugno 2024, Giacomo è ancora vivo in mezzo a noi, perché noi abbiamo fatto nostra la sua idea.  E la sua memoria vivrà ancora a lungo in tutti coloro che si ispireranno ai suoi ideali di pace, libertà, giustizia e solidarietà, sui quali deve fondarsi ogni patria degna di questo nome. Bene si addicono, perciò, a Giacomo, gli ultimi versi del poemetto «Dei Sepolcri» che il poeta Ugo Foscolo scrisse per esaltare la memoria dell’eroe troiano Ettore che morì per difendere la libertà della sua patria, dove al nome di Ettore potremmo sostituire quello di Giacomo:

E tu onore di pianti, Giacomo, avrai,
ove fia santo e lagrimato il sangue
per la patria versato, e finché il Sole
risplenderà su le sciagure umane.

E con il ricordo di Giacomo resterà perenne anche il tuo, Velia cara.

Roma, 10 giugno 2024

Alberto Vacca

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