Ho scritto questo libro dopo sessant’anni da quando nella mia sezione A del Liceo Scientifico Marconi di Pesaro avevo come compagno di classe Fernando Sadlowski. A lui, in quei quattro anni di frequenza scolastica e di studi pomeridiani, non ho avuto mai il coraggio di chiedere di come un ragazzo polacco fosse finito a vivere a S.Giorgio di Pesaro, un paesino sopra Fano, con un padre ingegnere, apolide, una parola nuova e strana su cui non volli andare più a fondo perché si sentiva che era un tema delicato, un nervo scoperto.
Quando, ebbi modo pochi anni fa di conoscere i fratelli Sadlowski sopravvissuti al mio amico Fernando, morto a 27 anni, poco prima della Laurea in Ingegneria, raccolsi da loro l’esigenza di sapere di più del loro padre Jan Tadeusz, che non aveva mai parlato in famiglia del suo passato e che aveva convissuto da solo con le tristezze e le amarezze di una vita complicata, spingendo i figli a fare il loro dovere come lui aveva fatto il suo. Così mi raccontarono di Leopoli, allora Polonia orientale e capitale della Galizia, dove il papà era nato e dove a sud, a circa settanta chilometri di distanza verso l’Ungheria, amministrava, come ingegnere agrario, una vasta proprietà agricola di famiglia.
Da quella terra, seppi da loro, dovette scappare nel settembre 1939 sotto l’avanzare delle truppe sovietiche che avanzavano da est a partire dal 17, mentre la Polonia era stata già invasa dal 1 settembre, ad ovest dall’esercito nazista. La preponderanza degli eserciti nazisti e russi su quello polacco, colpito simultaneamente da due fronti ed inferiore di numero, di armamenti e di preparazione fu, tranne qualche sacca di resistenza, schiacciante. L’esercito polacco, o meglio quello che restava di esso, fu invitato dal Governo democratico della Polonia, costretto all’esilio prima in Francia e poi in Gran Bretagna, ad abbandonare la Polonia evitando di essere catturati e cercando di raggiungere in qualsiasi modo la Francia dove c’era l’intenzione di ricostituire un nuovo esercito polacco che potesse combattere in occidente. Molti di loro morirono lungo il tragitto, furono arrestati e deportati o dai nazisti o dai sovietici.
Jan Tadeusz Sadlowski, appartenente alla Riserva dell’Esercito polacco, seguì le indicazioni date ai combattenti polacchi e scelse di dirigersi a sud, cercando di attraversare la più vicina Ungheria, per poi proseguire verso la Francia, già alleata, come gli inglesi, dei polacchi. Ma al confine ungherese venne arrestato e tenuto prigioniero per un anno. Una volta liberato, portò a compimento il suo progetto e raggiunse, con un piroscafo, dal Pireo, Marsiglia.
I fratelli Sadlowski mi diedero una cartellina, una specie di sancta sanctorum, in cui avevano raccolto le poche carte e foto che avevano ricevuto del padre, in particolare due foglietti scritti a mano con una biro rossa, in cui Jan Tadeusz aveva appuntato, come in un CV, i fatti salienti della sua vita, i titoli essenziali di un film che era durato dalla nascita al suo rientro in Italia il 31-12-1954, dopo la parentesi di una emigrazione con la famiglia in Argentina. Se questo era l’ordito, a me toccava ricostruire la trama.
Per raccontare la sua vita vera, ho dovuto rimettermi a studiare la storia della Polonia negli ultimi due secoli, ed in particolare della Seconda guerra Mondiale, di cui il 1 settembre (nel 2024 sono 85 anni) ricorre l’anniversario dello scoppio che corrisponde all’attacco a sorpresa con cannoneggiamenti violenti da parte di una corazzata tedesca contro un forte polacco nei dintorni di Danzica, che Hitler voleva occupare per prima, dopo aver cercato invano di ottenerla per via diplomatica.
Le vicende descritte nel libro sono solo un’infinitesima parte di quello che è realmente accaduto a centinaia di migliaia di polacchi, civili, soldati, donne, bambini, anziani, ebrei, deportati, morti per freddo, fame, lavori forzati, in battaglia, sia sul fronte occidentale ad opera dei nazisti sia su quello orientale ad opera dei sovietici.
La storia non è finora riuscita a raccontare tutte le loro tragedie, che si sono perdute nella memoria individuale e collettiva per la necessità di andare avanti, di buttarsi il passato alle spalle, spesso per dimenticare i patimenti subiti, le colpe di non aver fatto nulla e tacitare la propria coscienza che altrimenti pone, angosciosamente, sempre la stessa domanda: perché abbiamo tollerato e continuiamo a tollerare tutto questo ?
Nel martellante racconto dell’invasione russa dell’Ucraina, che va ricordato, è cominciata non due anni fa ma nel 2014 con l’invasione della Crimea senza alcuna reazione occidentale e alcun interesse dei media, nessun risalto è stato dato al precedente del settembre 1939 dell’invasione della Polonia, quando con il patto Molotov-Ribbentropp, l’URSS e la Germania nazista, in gran segreto, decisero un reciproco accordo di non belligeranza, ma, soprattutto, la spartizione della Polonia, allora alleata ed in attesa di un aiuto di Francia e Gran Bretagna che non arrivò, con un attacco a tenaglia in contemporanea da ovest e da est. Fu quell’aggressione da parte di due regimi antitetici ideologicamente che innescarono la Seconda Guerra Mondiale, con vittima sacrificale, la Polonia.
In quel lontano 1939 e negli anni seguenti ci furono grandi efferatezze, distruzioni, crimini disumani e massicce deportazioni verso i lager tedeschi da parte dei nazisti e verso i gulag da parte dell’Armata Rossa. I nazisti non sterminarono solo gli ebrei nei lager divenuti poi tristemente famosi, ma anche i polacchi, considerati slavi inferiori. Da parte loro, ad est i russi catturarono centinaia di migliaia di donne, bambini e militari polacchi, che finirono nei gulag, raccontati a partire dal 1951 dallo scrittore polacco Gustaw Herling, con due anni di gulag passati al Circolo Polare Artico e soldato nel Corpo d’Armata polacco, e poi dai russi Salamov e Solgenitsin. In quei gulag, sparsi nelle regioni più remote dell’URSS e in particolare della Siberia, moltissimi morirono per le condizioni atroci di vita e di lavoro imposte e per il gelo.
Anche allora, dagli uni e dagli altri aggressori fu dispiegata la strategia di negare le evidenze. Nessuno sapeva o parlava dei lager nazisti, dove morirono milioni di ebrei, rom, sinti ed oppositori politici. Non si sapeva nulla di quanto succedeva ad est, come a Katyn (che allora era nella parte di Polonia occupata dai sovietici dal 1939 al 1941). Lì, dopo la rottura unilaterale nel 1941 da parte della Germania del patto con l’URSS e l’invasione (Operazione Barbarossa), i tedeschi nel 1943 scoprirono numerose fosse comuni di migliaia di ufficiali e graduati polacchi, tutti uccisi con un colpo di pistola alla nuca e poi disposti a strati come sardine in una scatoletta. La prima discolpa russa fu quella di far ricadere l’eccidio sui tedeschi che avevano dissotterrato i cadaveri di 22.000 ufficiali polacchi e non; la seconda fu quella di considerare le risultanze delle commissioni neutrali e della Croce Rossa come strumenti della propaganda nemica all’URSS. Solo cinquant’anni dopo, a mezza bocca prima, poi ufficialmente, da parte di Gorbacev e di Eltsin fu ammessa quella verità ed è lecito pensare che anche per questi loro atti abbiano perso la leadership a vantaggio di quella di Putin, ex agente segreto ed aspirante neo-assolutista. Furono proprio Gorbacev ed Eltsin a far aprire gli archivi con i documenti segreti, con gli ordini a firma di Berija e di Stalin di eliminare gli ufficiali ed i sottufficiali raccolti in alcuni gulag in URSS.
Quel voltafaccia tedesco del 1941 indusse però la reazione “rettiliana” di Stalin che, nonostante tutti i pregiudizi verso le nazioni occidentali, si schierò immediatamente con inglesi e francesi e poi anche con gli americani, considerati fino ad allora la “quintessenza del capitalismo”. Fu Stalin nel 1941 e parte del 1942 a concedere l’amnistia dai gulag, dove aveva recluso centinaia di migliaia di ufficiali e soldati polacchi catturati o arresisi nel 1939 e i loro familiari. Fu questa la ragione per cui il comandante polacco Wladislaw Anders, fino a quel momento prigioniero nel carcere moscovita della Lubianka, venne rilasciato e divenne interlocutore diretto di Stalin. L’obiettivo dell’amnistia non era quello di un atto umanitario, un gesto riparatorio, ma quello di avere dei rinforzi per proteggere il proprio territorio minacciato dall’avanzata nazista.
La resistenza a questa ipotesi venne proprio del Generale Anders, in considerazione del fatto che quegli uomini e donne appena liberati non erano in condizione di combattere, e, in seconda battuta, non avrebbero mai potuto combattere al fianco dei propri aguzzini. Stalin considerò quello di Anders praticamente un tradimento (di cui i russi e i filorussi si sarebbero ricordati alla fine della guerra), ma il Generale tenne duro e riuscì ad ottenere che i polacchi, usciti dai gulag e radunatisi in Kazakistan, potessero cominciare il loro esodo biblico fino all’Iran, all’Iraq, la Palestina, l’Egitto ed infine raggiungere l’Italia, dove avrebbero combattuto al fianco dell’VIII Armata Britannica.
Nel libro, la biografia di Jan Tadeusz comincia con la fuga dalla Polonia, il suo internamento in Ungheria, la ripresa della fuga e il suo arrivo in Francia per l’addestramento, poi la Scozia, a causa dell’invasione tedesca della Francia, ed infine l’Iran, l’Iraq, il Medio Oriente, fino al suo sbarco a Taranto come ufficiale di artiglieria della Divisione Kresowa del 2° Corpo d’Armata polacco in Italia.
Seguiremo le principali tappe del suo reggimento nelle battaglie sostenute, da quelle decisive come Cassino, dove il 2° Corpo e la sua Divisione riuscirono a conquistare l’abbazia permettendo alla V Armata americana di raggiungere Roma, a quelle importanti sul fronte adriatico, con la conquista di Fermo e Filottrano ed Ancona, con il suo porto strategico.
I soldati polacchi, che combattevano al fianco dell’VIII Armata inglese, proseguirono la loro campagna fino alla liberazione di Fano e Pesaro e la rottura della Linea Gotica, appena sopra Pesaro, e poi sempre avanti fino alla liberazione di Bologna nel 1945. Fu un caso che nella fase in cui fu impegnato a superare la resistenza nazista sulle colline intorno a Fano, Jan Tadeusz conobbe una ragazza di San Giorgio di Pesaro che diverrà nel 1945 sua moglie.
Il libro non può non raccontare la sorte post bellica, cioé la smobilitazione avvenuta tra il 1945 e il 1947 dell’Armata polacca, forte di quei 100.000 e più soldati polacchi, uomini e donne, che erano venuti a combattere per la nostra e la loro libertà, fiduciosi che, alla fine, gli alleati inglesi ed americani mantenessero le promesse fatte di poter tornare, una volta vinta la guerra, nella loro patria liberata.
Ma, come sappiamo, le “ragioni di stato” prevalsero sulle promesse. Il “trattato di pace” di Yalta (Crimea) non fu equo con la Polonia, “vittima della guerra”, pur con i suoi tanti soldati che avevano combattuto e vinto in tutta Europa contro i nazisti. I firmatari di quel trattato (Churchill, Roosevelt e Stalin) sancirono l’occupazione militare della Polonia orientale (cioè la Galizia, con Leopoli sua capitale) da parte dell’Unione Sovietica, e lo spostamento dei polacchi verso l’ovest della nuova Polonia , affidata ad un governo filo russo, e lo spostamento forzato dei tedeschi ancora più ad ovest, verso la Germania occupata dagli Angloamericani.
Così i polacchi furono sacrificati sull’altare dell’alleanza anglo-americana con i russi arrivati a Berlino e che avevano sottomesso tutto il territorio riconquistato ai nazisti, a partire dalla Polonia, lasciando all’Ucraina sovietica i territori orientali della Galizia polacca con Leopoli.
L’unica soluzione offerta dagli inglesi alle migliaia dei combattenti polacchi fu quella di tornare in Polonia, divenuta nel frattempo uno stato satellite dell’URSS o di trasferirsi in Gran Bretagna dove offrirono loro percorsi di inserimento professionale e lavorativo. L’alternativa era quella di emigrare nel resto del mondo. La maggioranza decise di non tornare in patria, divenuta satellite dell’URSS. La diaspora polacca, mai terminata, si acuì in quegli anni in Italia, dove gli ex combattenti polacchi furono considerati politicamente scomodi anche per la “ragion di stato” italiana. L’Italia non aveva vinto la guerra e non poteva non adeguarsi ai desiderata dei vincitori. Dalla guerra usciva solo con il ruolo di “cobelligerante”, grazie proprio al Corpo Italiano di Liberazione, con molti soldati rientrati in Italia nei molti più impensabili dopo l’8 settembre 1943 (praticamente oggi sconosciuto ai più) e alla Brigata Maiella. Non è una storia che si studia a scuola così come non si studiano i grandi eccidi di civili avvenuti ad opera delle SS e degli italiani che scelsero la Repubblica di Salò, come quelli sulla Linea Gotica nella Lunigiana, e si conosce poco il sacrificio di molte formazioni partigiane di tutte le tendenze politiche, comprese le monarchiche.
I polacchi che si rifiutavano di tornare “a casa” (ma quale casa ? Spesso erano state statizzate come tutte le proprietà) diventavano agli occhi delle nuove autorità polacche “nemici del popolo, traditori, con tutte le conseguenze anche verso i parenti dei “traditori” e perdevano automaticamente la cittadinanza polacca. Ma dove sarebbe dovuto tornare Jan Tadeusz, polacco di Leopoli, diventata città dell’Ucraina sovietica ? Doveva diventare cittadino ucraino?
Molti furono quelli che decisero di andare in Gran Bretagna; moltissimi emigrarono nelle Americhe o in Australia. Lo stesso generale Anders, in Italia osannato e decorato per il suo valore, consapevole dell’impossibilità di ottenere una diversa sorte per i suoi soldati, decise nel 1946 di raggiungere la Gran Bretagna pur di non essere considerato ostile alle decisioni inglesi di smobilitare il 2° Corpo d’Armata polacco in Italia.
Nel 1947 il numero dei soldati polacchi ancora in Italia si era ridotto a circa due migliaia, quelli sposati con ragazze italiane nei paesi dove avevano combattuto o sostato e, tra loro, Jan Tadeusz, approdato a San Giorgio di Pesaro, nelle campagne sopra Fano, dove aveva conosciuto e poi sposato una ragazza del paese. Anche per la nuova coppia si pose la decisione se emigrare: Jan Tadeusz, sua moglie ed il loro primo figlio partirono per l’Argentina, dove molti altri polacchi si erano già trasferiti e che sembrava offrire buone opportunità. Jan Tadeusz riuscì a trovare lavoro e un po’ della soddisfazione che cercava. Ma, pochi anni dopo, per nostalgia e per ritrovare radici più familiari, prima la moglie con tre figli ,di cui due nati in Argentina, decisero di fare ritorno a San Giorgio di Pesaro. Jan Tadeusz rientrerà in Italia solo a fine del 1954. Volendo restare fedele al Governo polacco in esilio, decise di non richiedere la cittadinanza italiana. Fu così costretto ad accettare l’unica soluzione che gli offriva il diritto italiano cioé quella di essere considerato “apolide”, un senza patria, con tutte le conseguenze di precarietà e di marginalità sociale. La sua non fu una scelta isolata. Molti militari polacchi scelsero rimasero coerenti con la propria storia e si deve oggi all’Associazione delle Famiglie dei Combattenti Polacchi in Italia e al suo Presidente Maurizio Nowak se la memoria dei polacchi liberatori viene mantenuta in tanti piccoli paesi d’Italia ed in particolare lungo l’Adriatico .
L’odissea di Jan Tadeusz, cominciata in Polonia a Leopoli, ebbe fine in Italia, nel piccolo paesino natale della moglie, la sua nuova Itaca, nelle campagne dove aveva combattuto. Qui visse nella casa dei genitori della moglie, colpita nel 1944 proprio da un proiettile di artiglieria polacca. Lì, lui, ingegnere agrario, si adattò a vivere gestendo due piccoli terreni di famiglia e facendo lavori occasionali e stagionali. L’Italia non offriva altro a quei soldati, liberatori e vincitori, anche se laureati. Scomodi e senza diritti, vissero in un sostanziale oblio dettato dalla realpolitik delle potenze vincitrici ma anche del governo “cobelligerante” italiano. Riuscì però a mantenere intatta la propria dignità e rimase fedele ai suoi ideali, accettando la sorte di chi, per quelli, è disposto a rischiare la vita e subirne le conseguenze, fino alla fine dei suoi giorni.
La campagna italiana costò agli Alleati 313. 000 soldati morti, più feriti o prigionieri. In Italia ci sono decine di cimiteri di soldati caduti, inglesi, americani compresi i pellerossa, greci, francesi, canadesi, australiani, neozelandesi, indiani, nepalesi, brasiliani. I soli polacchi hanno 4 grandi cimiteri di guerra, con 4.000 e più loro vittime, tra Casamassima in Puglia, Cassino nel Lazio, Loreto nelle Marche e San Lazzaro di Savena a Bologna.
Con il mio libro ho voluto ricostruire, per quanto mi è stato possibile, la storia di uno di quei polacchi che hanno rischiato la propria vita per noi italiani e sono sopravvissuti senza mai ricevere neanche un grazie. Gratitudine e riconoscenza sono i segni più evidenti dell’umanità e dove mancano è perché la memoria è “breve o del tutto assente”, come dice Duccio Demetrio nel suo libro “Ingratitudine”, o sono scattate rimozioni individuali e collettive per cancellare il proprio passato e gli errori commessi.
La memoria di tutto quello che è avvenuto è sparsa soprattutto nei cimiteri italiani su quelle lapidi con solo nome e cognome dei caduti di tutti i continenti, nazioni, lingue, religioni. Ma, come tutti i cimiteri di guerra, non riescono ad essere un monito sufficiente per impedire altre guerre e massacri. Quanta di questa storia è memoria collettiva ? Chi conosce le storie personali di quei caduti, le sorti delle mogli e dei figli che hanno lasciato, il dolore con cui hanno dovuto convivere i loro genitori e le loro famiglie di origine ? Jan Tadeusz ebbe la propria madre e la propria sorella maggiore prima deportate da Leopoli e poi morte in due gulag sovietici, con un nipotino morto in India, dove era stato mandato per salvarlo dal gulag, mentre gli altri due figli della sorella, aggregati al 2° Corpo polacco, riuscirono a salvarsi raggiungendo con il loro padre gli Stati Uniti.
La vera memoria storica non teme il passato, anzi incoraggia a studiarlo e a condividerlo per rendere giustizia ai tanti protagonisti anonimi giunti da ogni parte del mondo per la Liberazione dell’Italia dal nazifascismo. L’Italia ha patito, dopo la guerra, una ulteriore sconfitta morale quando la maggioranza dei carnefici ed assassini tedeschi e repubblichini, non sono stati raggiunti dalla giustizia o, laddove condannati, in Germania ed in Italia, hanno avuto pene ridotte, amnistiate o ridicole. Norimberga ha colpito solo pochi alti gerarchi per i suoi lager e gli stermini di massa. Nella ex Unione Sovietica nessuno ha mai pagato per i morti nei suoi gulag.
Un giorno dedicato alla memoria è importante, ma non ci deve distrarre troppo perché ogni giorno si commettono, in contesti vicini e lontani, sopraffazioni, azioni di genocidio, di guerra, di aggressione, di violazione dei diritti fondamentali, che nemmeno conosciamo o immaginiamo, e i più dei quali restano impuniti. Il diritto internazionale è ancora fragile e spesso non ha gli strumenti per arrestare i colpevoli. Ma quei reati non cadono in prescrizione e, finché la memoria resta attiva, c’è sempre la speranza che un giudice lo faccia valere.
SOLDATI POLACCHI IN ITALIA – L’odissea senza ritorno di Jan Tadeusz Sadlowski, di Michele Giampietro, Editrice EDUP, Roma, 2023.